"Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. ... di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i «cuori di pietra» in «cuori di carne» (Ez 36,26), così da rendere «divina» e perciò più degna dell'uomo la vita sulla terra. ..." Caritas in veritate (Enciclica di Benedetto XVI, 29 giugno 2009)
Il Papa chiude un’enciclica dedicata all’impegno nel sociale, al disegno di un modello alternativo per lo sviluppo economico improntato al senso di solidarietà e responsabilità degli uomini verso gli altri uomini e verso il creato con un’immagine spettacolare e inaspettata: invece di masse operose e “impegnate” propone il cristiano con le braccia alzate in segno di preghiera. Forse che i cristiani non devono impegnarsi o devono rifuggire la concretezza dell’azione? Certamente no, ma la concretezza dell’azione non deve farci dimenticare che il bene che produce il vero sviluppo è un dono che viene da Dio, e come tale ha bisogno di individui in grado di accoglierlo, di riconoscerlo e di metterlo a frutto.
Questa lezione è difficile. Nel secolo della scienza e della tecnologia, dove le possibilità aperte dall’avanzare delle conoscenze danno una sensazione di onnipotenza e di dominio assoluto, la logica del “fare” regna incontrastata. Il messaggio dominante è che ciascuno sia artefice del proprio futuro, che può controllare e modellare a piacimento, utilizzando tutti gli strumenti e le opportunità che il “progresso” offre, tutto ciò che la tecnica consente, per vivere più a lungo o per morire, per avere figli o non averne, per decidere il quando il dove e il se interrompere una vita nel suo nascere, o cercare di produrla a tutti i costi, per selezionare fra le varie alternative possibili quelle che sono veramente “utili” nel senso del benessere materiale che possono produrre, dei bisogni fisici che possono soddisfare e di conseguenza della felicità che sono in grado di realizzare. Confondendo il progresso con il soddisfacimento del proprio egoismo personale, chiamando quest’ultimo ‘amore’, anteponendo sempre l’io al noi, prendendo se stessi a misura della giustizia.
La preghiera invece serve esattamente al contrario, serve cioè a riconoscere che le nostre capacità e la nostra intelligenza a nulla servono se non sono illuminate dallo Spirito, a riflettere sulle nostre azioni e ad affidare la nostra fatica alla provvidenza, ad esercitare la virtù della speranza nell’attesa del Dio che viene.
Emanuela Reale, Ciciliano, Gennaio 2010