La catechesi di oggi di Papa Francesco durante l’Udienza generale ci rimanda alle parole di G. Giaquinta.
Il Papa esorta: “Cari amici dobbiamo essere sempre grati al Signore, perché nella persona e nel ministero dei vescovi, dei sacerdoti e dei diaconi continua a guidare e a formare la sua Chiesa, facendola crescere lungo la via della santità. Allo stesso tempo, dobbiamo continuare a pregare, perché i Pastori delle nostre comunità possano essere immagine viva della comunione e dell’amore di Dio”.
Come non riconoscere una sintonia con la spiritualità giaquintiana?
Parlare di spiritualità del sacerdote significa trattare di ciò che a lui deve più stare a cuore e cioè della vita interiore. Il sacerdote è costituzionalmente l'uomo di Dio e di Cristo. La sua vita di preghiera, di unione, di amore incondizionato al Padre e a Gesù Eucarestia non è realtà sostituibile con alcun'altra cosa. S. Agostino, parlando del Vescovo, diceva: « Attento che egli non si limiti a portare il "titulus" e non abbia la "res", sia cioè apparenza ma non vita vissuta, dispensatore di ordini, ma non pastore che si immola ». E in sostanza è ciò che pensava, già prima, S. Paolo, e che, in termini moderni, si potrebbe così esprimere: se non abbiamo l'amore verso Dio, tutto il resto non vale nulla e noi siamo dei poveri cembali da saltimbanchi o delle fredde campane legate, senza vita, a vecchi campanili.
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Tecnica, metodologia, relazioni umane, rapporti sociali, aggiornamento, cultura: sono tutti termini prestigiosi che danno luce e brillio ad un'anima piena di vita interiore, ma che si attaccano solo come vernici caduche su di un cuore sacerdotale che si è spento all'ardore per Cristo. Sta qui il problema primo e più drammatico del nostro sacerdozio. Dobbiamo essere donatori di soprannaturale, ma a condizione che di esso ci siamo già abbondantemente riempiti. S. Bernardo ripeterebbe: « esto conca, non canalis ».
(Preti nuovi per uomini nuovi, 1967, Ed. Pro Sanctitate)