La strumentalizzazione della paura dell’altro da noi (straniero o semplicemente diverso) é probabilmente la tecnica piú antica al mondo per chi vuole assicurarsi un’ascesa veloce al potere o di chi vuole manterlo quando il consenso inizia a vacillare.
Il Sud Africa è malauguratamente un esempio paradigmatico al riguardo. Il regime dell’apartheid (terminato formalmente solo nel 1994) si é imposto sulla base di conflitti secolari tra colonizzatori e popolazioni indigene. Nutrito di miti messianici e condito da disprezzo vero e proprio per le razze non bianche, l’apartheid ha tipizzato per circa quarant’anni (almeno) il delirio di onnipotenza che una minoranza accanita e ben organizzata ha imposto a popolazioni tecnologicamente meno avanzate, relegandole alla posizione subalterna di individui senza diritti, di plebe da sfruttare a fini economici per realizzare gli interessi economici degli egemoni.
In Sud Africa, il razismo ha trovato linfa in altri processi, quali le guerre tra boeri ed inglesi ed I massacri tra le varie poolazioni indigene (quale la Mafakane del XiX secolo ad opera del terribile Shaka Zulu) che hanno in qualche modo alimentato l’idea che la storia é fatta di guerre totali e di vittorie totali, necessitanti l’alienazione dell’identitá della parte sconfitta.
Con l’avvento della democrazia nel 1994, Mandela riuscì nell’impresa di fondare il nuovo Sud Africa sull’idea di un’identità plurale: diversi ma uniti dalla volontà di vivere lo stesso paese nel rispetto dei diritti di ciascuno, tramite un sistema costituzionale considerato come uno dei più avanzati al mondo.
Si imponeva, ovviamente, un lavoro profondo di discriminazione positiva a favore delle popolazioni precedentemente oppresse (nere, ma anche indiane e “coloured”), attuato attraverso politiche di preferenza sul lavoro, nei contratti pubblici ed altri meccanismi (cosiddetto back empowerement).
Con l’avvento di Zuma nel 2009, il progetto di Mandela inizió a cigolare. Con una crisi economica incalzante, le politiche di discriminazione attiva sono diventate sempre piú erratiche e sempre meno trasparenti. In nome del black empowerement, gli enti economici pubblici (in settori quali l’energia, i trasporti, ecc) hanno coperto una serie di affari quanto meno dubbiosi che hanno contribuito al declino economico e finanziario degli stessi enti. Le istutuzioni preposte ai controlli (quali il Tesoro, la giurisdizione inquirente ed l’agenzia delle entrate) sono state progressivamente svuotate di competenze e credibilitá.
Mentre gli investimenti privati si raffreddavano, il governo brandiva il bisogno di soddisfare la rabbia popolare (black anger) tramite una lotta al monopolio del capitale (white capital monopoly).
I risultati economici sono sotto gli occhi di tutti. La crescita economica è pressoché ferma da anni, le finanze pubbliche in ginocchio, la disoccupazione ai massimi storici.
Durante tutti questi anni il dibattito sul razzismo non é mai cessato; utile e necessario, ma molto spesso unidirezionale e strumentale. Anche tra intellettuali illuminati, si é sistematicamente ignorato il razzismo delle e tra le popolazioni non-bianche (che spesso assume toni violentissimi, come nel caso degli attacchi xenofobici contro africani immigrati) e si sono condonate pratiche amministrative e politiche illegali e deleterie sulla base del black anger.
L’esperienza sudafricana può essere utile anche nel contesto italiano ed europeo sotto diversi profili:
a) Il razzismo e’comune a tutti gli esseri umani; pensare altrimenti é di per sé segno di razzismo. Solo l’educazione e l’impegno civico ci permettono di superarlo. Per uomini e donne di ragione e di fede, il superamento del razzisamo é un imperativo morale, che richiede molta vigilanza sia rispetto al buonismo, sia rispetto alle costruzioni di tipo integralista.
b) In politica, occorrono attori capaci di smascherare tattiche di matrice razzista. Gli anticorpi generati dagli orrori della guerra sono chiaramente in esaurimento. La tecnologia favorisce la circolazione di mezze verità e di proclami irresponsabili. Occorre sviluppare sistemi di ricerca e di dialogo che meritino fiducia.
c) Stiamo attenti al populismo, ovvero alle promessa di risolvere i problemi delle masse mandando tutto all’aria o attaccando gruppi particolari. Cerchiamo semmai e contribuiamo a proposte che massimizzino i benefici i modo creativo e realistico.
d) Di fronte ai diversi (immigrati comunitari e non, minoranze, etc) non abbiamo paura a parlare di diritti e di doveri. Da cristiani, però credo che ciò vada fatto nel riconoscimento del valore fondamentale della persona.
In tutto questo, volenti o nolenti, la politica ha un ruolo determinante da giocare. Con tanta incertezza intorno ed in mezzo a noi, è forse tempo che noi cristiani ci rimettiamo a riflettere sul servizio da svolgere... il perbenismo non basta più.
Massimo De Luca