"Comunione" è uno dei nomi della misericordia

Le parole che Papa Francesco ha rivolto ai Vescovi italiani riuniti a Roma, tratteggiano la figura del sacerdote e disegnano lo scenario di una Chiesa disposta ad abbracciare il Vangelo.

Alla gratitudine per queste riflessioni forti, vere e coraggiose, facciamo seguire la preghiera e poi l’impegno, di ogni credente e di ogni comunità. L’impegno di essere tutti disposti a prendere il largo liberando le funi che tengono il nostro battello immobile in un porto sicuro.

 

[…] Questa sera non voglio offrirvi una riflessione sistematica sulla figura del sacerdote. Proviamo, piuttosto, a capovolgere la prospettiva e a metterci in ascolto, in contemplazione. Avviciniamoci, quasi in punta di piedi, a qualcuno dei tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità; lasciamo che il volto di uno di loro passi davanti agli occhi del nostro cuore e chiediamoci con semplicità: che cosa ne rende saporita la vita? Per chi e per che cosa impegna il suo servizio? Qual è la ragione ultima del suo donarsi? […]

 

Che cosa, dunque, dà sapore alla vita del “nostro” presbitero? Il contesto culturale è molto diverso da quello in cui ha mosso i primi passi nel ministero. Anche in Italia tante tradizioni, abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento d’epoca.

Noi, che spesso ci ritroviamo a deplorare questo tempo con tono amaro e accusatorio, dobbiamo avvertirne anche la durezza: nel nostro ministero, quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello.

Su questo sfondo, la vita del nostro presbitero diventa eloquente, perché diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto”, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco.

 È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino. 

Con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza. Avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro. Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell’efficienza.

Sa che l’Amore è tutto. Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi.

 

Il segreto del nostro presbitero – voi lo sapete bene! – sta in quel roveto ardente che ne marchia a fuoco l’esistenza, la conquista e la conforma a quella di Gesù Cristo, verità definitiva della sua vita. È il rapporto con Lui a custodirlo, rendendolo estraneo alla mondanità spirituale che corrompe, come pure a ogni compromesso e meschinità. È l’amicizia con il suo Signore a portarlo ad abbracciare la realtà quotidiana con la fiducia di chi crede che l’impossibilità dell’uomo non rimane tale per Dio

 

Diventa così più immediato affrontare anche le altre domande da cui siamo partiti. Per chi impegna il servizio il nostro presbitero? La domanda, forse, va precisata. Infatti, prima ancora di interrogarci sui destinatari del suo servizio, dobbiamo riconoscere che il presbitero è tale nella misura in cui si sente partecipe della Chiesa, di una comunità concreta di cui condivide il cammino.

Il popolo fedele di Dio rimane il grembo da cui egli è tratto, la famiglia in cui è coinvolto, la casa a cui è inviato. Questa comune appartenenza, che sgorga dal Battesimo, è il respiro che libera da un’autoreferenzialità che isola e imprigiona: «Quando il tuo battello comincerà a mettere radici nell’immobilità del molo – richiamava Dom Hélder Câmara – prendi il largo!». Parti! E, innanzitutto, non perché hai una missione da compiere, ma perché strutturalmente sei un missionario […]

Colui che vive per il Vangelo, entra così in una condivisione virtuosa: il pastore è convertito e confermato dalla fede semplice del popolo santo di Dio, con il quale opera e nel cui cuore vive. Questa appartenenza è il sale della vita del presbitero; fa sì che il suo tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno. In questo tempo povero di amicizia sociale, il nostro primo compito è quello di costruire comunità; l’attitudine alla relazione è, quindi, un criterio decisivo di discernimento vocazionale.

Allo stesso modo, per un sacerdote è vitale ritrovarsi nel cenacolo del presbiterio. Questa esperienza – quando non è vissuta in maniera occasionale, né in forza di una collaborazione strumentale – libera dai narcisismi e dalle gelosie clericali; fa crescere la stima, il sostegno e la benevolenza reciproca; favorisce una comunione non solo sacramentale o giuridica, ma fraterna e concreta. Nel camminare insieme di presbiteri, diversi per età e sensibilità, si spande un profumo di profezia che stupisce e affascina. La comunione è davvero uno dei nomi della Misericordia.

Nella vostra riflessione sul rinnovamento del clero rientra anche il capitolo che riguarda la gestione delle strutture e dei beni: in una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio. 

Infine, ci siamo chiesti quale sia la ragione ultima del donarsi del nostro presbitero. Quanta tristezza fanno coloro che nella vita stanno sempre un po’ a metà, con il piede alzato! Calcolano, soppesano, non rischiano nulla per paura di perderci… Sono i più infelici! Il nostro presbitero, invece, con i suoi limiti, è uno che si gioca fino in fondo: nelle condizioni concrete in cui la vita e il ministero l’hanno posto, si offre con gratuità, con umiltà e gioia. Anche quando nessuno sembra accorgersene. Anche quando intuisce che, umanamente, forse nessuno lo ringrazierà a sufficienza del suo donarsi senza misura.

Ma – lui lo sa – non potrebbe fare diversamente: ama la terra, che riconosce visitata ogni mattino dalla presenza di Dio. È uomo della Pasqua, dallo sguardo rivolto al Regno, verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i ritardi, le oscurità e le contraddizioni. Il Regno – la visione che dell’uomo ha Gesù – è la sua gioia, l’orizzonte che gli permette di relativizzare il resto, di stemperare preoccupazioni e ansietà, di restare libero dalle illusioni e dal pessimismo; di custodire nel cuore la pace e di diffonderla con i suoi gesti, le sue parole, i suoi atteggiamenti. 

 

Discorso integrale alla Conferenza Episcopale Italiana - 16 Maggio 2016