Gli ultimi posti della città

 

Il tuo bisogno, fratello,

crei sempre in me, tuo fratello,

l’esigenza di venirti incontro

al di là e al di sopra di ogni calcolo

e di ogni principio di fredda giustizia.

 

Guglielmo Giaquinta

 “Dio abita nella città. Bisogna andare a cercarlo e fermarsi là dove Lui sta operando”.

Queste parole di Papa Francesco indicano chiaramente il motivo conduttore del suo pontificato che desidera una Chiesa che esce da se stessa diretta verso le periferie, non solo quelle geografiche ma anche esistenziali.

Come viviamo questa indicazione così forte?

Pensiamo alle nostre città. Ai luoghi che abitiamo.

Riusciamo a comprenderle profondamente? Riusciamo a vedervi non semplicemente “neutri scenari” ma luoghi che generano racconti di vita?

 

Come ci interrogano gli spazi urbani di marginalità? Come li guardiamo alla luce della Parola di Dio?

 

 Interrogativi stringenti, problematiche sempre aperte che ritroviamo affrontati con estrema lucidità e profondità dal professore di Antropologia culturale Ferdinando Fava, nell’articolo pubblicato sul numero di Gennaio 2015 di Aggiornamenti Sociali, nota rivista di approfondimento sociale, politico ed ecclesiale, a cura dei Gesuiti. L’autore, nella sua analisi, trae spunto dalla seguente espressione dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium:

 

 E’ necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima della città. (Evangelii Gaudium n. 74).

 

Siamo invitati ad essere contemporanei del nostro tempo e del nostro spazio, a metterci in movimento, a trovare i luoghi che rappresentano il dinamismo della città contemporanea e a renderci prossimi a questi luoghi.

Interroghiamoci sul dove la comunità cristiana intenda collocarsi e sul come decida di stare nella città.

L’esortazione, rifacendosi alla profondità’ e all’anima, ci indica che per cogliere il modo di funzionare della città non possiamo fermarci a ciò che appare; la comprensione critica della città richiede infatti uno sforzo ulteriore e un continuo impegno di discernimento. 

Tale azione comporta la rinuncia dello sguardo totalizzante dall’alto perché l’immagine della città è molto complessa e non trasparente e va vissuta al suolo come uno spazio da percorrere, da camminare, da praticare.

Lo spazio urbano, occasione di una esperienza di incontro, è letteralmente pietra di inciampo che mette alla prova le nostre certezze, l’impensato che invita a decentrare il nostro conoscere, le nostre morali e le nostre religiosità. Ci invita ad apprendere il mondo diversamente e ci permette di ascoltare ancora una volta l’inaudito delle Beatitudini, ce ne fa fare esperienza diretta. Una pietra di inciampo che ci invita a rivestirci di una santità sempre straniera, estranea e lontana dalle contrapposizioni con cui dividiamo il mondo e le sue città.

Le aree urbane di marginalità possono trovarsi nei centri storici o nelle periferie cosiddette degradate, terre di nessuno, eppure abitate e vissute (slum, shanty town, villa miseria, ecc.).

La parte normale della città nega ad esse ogni identità di memoria e di legami per legittimarne l’abbattimento, la redenzione, il controllo, la riqualificazione.

Eppure questi luoghi rivelano l’essenza della città contemporanea neoliberale che intende fare di essa stessa un bene di consumo di lusso e che genera quindi di conseguenza le aree di margine.

I poveri che abitano tali aree non possono essere espulsi da questa pianificazione urbana, ma fanno paura e giustificano così la deriva securitaria e i castelli fortificati delle residenze private. La pianificazione urbana così svolta non è che un altro metodo per ottenere, assicurare e consolidare l’egemonia degli apparati che governano lo spazio della città e che da esso traggono profitto economico, simbolico e politico.

I margini quindi non sono accidenti della città neoliberale. Lo scarto che segnano rinvia al funzionamento profondo dell’ordine politico e sociale, ai processi sociali di produzione dell’ineguaglianza e della salvaguardia gelosa del privilegio. Sono spazi in  cui i residenti negoziano quotidianamente con la violenza: non solo e non tanto con quella dei fatti di cronaca che vi hanno luogo e che alimentano gli stereotipi, ma molto di più con quella violenza, tanto invisibile, silenziosa e continua quanto dolorosa, quel “male d’essere” che si prova in essi e attraverso di essi. Una violenza che non è apparentemente imputabile a nessun agente diretto. La sua origine non va cercata nei gesti interpersonali violenti, ma nelle sedimentazioni degli effetti di scala delle scelte economiche e politiche, della storia del welfare e del mercato del lavoro. 

Questi luoghi sono “segni” da discernere, riconoscere ed ascoltare come un appello alla conversione a quel Regno, a quell’universo sociale fatto di relazioni giuste, benevole, di cura reciproca, diremmo di fraternità.

La posta in gioco non è di poco conto per la comunità cristiana: il suo incontro con il Dio della vita si gioca proprio nel riconoscimento di un luogo… “uomo dove ti sei nascosto” (Genesi 3,8-13), “Rabbì dove abiti?” (Giovanni 1,38).

 Le periferie, dunque, indicano il luogo dove la comunità cristiana è chiamata a posizionarsi, non tanto in riferimento a progetti pastorali o alla creazione di nuove parrocchie, ma al significato di stare agli ultimi posti così. Come Gesù, che è stato un ebreo marginale.

Franco Contino