Óscar Arnulfo Romero, fu Pastore buono, pieno di amore di Dio e vicino ai suoi fratelli, vivendo il dinamismo delle beatitudini, giunse fino al dono della sua stessa vita, in modo violento, mentre celebrava l’Eucaristia, Sacrificio dell’amore supremo, suggellando con il suo stesso sangue il Vangelo che annunciava.
Il martire, di fatto, non è qualcuno che è rimasto relegato nel passato, una bella immagine che adorna le nostre chiese e che ricordiamo con una certa nostalgia. No, il martire è un fratello, una sorella, che continua ad accompagnarci nel mistero della comunione dei santi, e che, unito a Cristo, non trascura il nostro pellegrinare terreno, le nostre sofferenze, le nostre pene.
(Papa Francesco, 30 ottobre 2015)
Il 23 maggio 2015 in un bagno di folla di circa 260 mila persone viene celebrata a San Salvador la messa di beatificazione di Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo, martire, che, sostenuto da Cristo, pietra angolare, ha donato la sua vita per la costruzione del Regno.
Papa Francesco lo ha definito “immagine di Cristo Buon Pastore, che in tempi di difficile convivenza ha saputo guidare, difendere e proteggere il suo gregge, rimanendo fedele al Vangelo e in comunione con tutta la Chiesa e distinguendosi per una particolare attenzione ai più poveri e agli emarginati” e ancora ha ribadito che “la voce del Beato continua a risuonare oggi per ricordarci che la Chiesa è famiglia di Dio dove non può esserci alcuna divisione”.
Eppure il suo processo di beatificazione era rimasto bloccato da tempo nei corridoi della Congregazione per le cause dei santi…
Evidentemente il suo fulgido esempio di santità sociale vissuta fino alle conseguenze estreme è stato non sempre compreso correttamente da una parte della Chiesa legata ancora all’oligarchia e al potere temporale.
L’articolo del saggista Anselmo Palini pubblicato su Aggiornamenti Sociali traccia con chiarezza le tappe fondamentali della vita del beato riportando anche alcuni suoi pensieri che ben inquadrano la sua visione della Fede e della Parola.
Oscar Arnulfo Romero nasce il 15 agosto 1917 in El Salvador a Ciudad Barrios, un paesino di mille abitanti. Trascorre sei anni di studio a Roma dal 1937 al 1943 presso la Pontificia Università Gregoriana.
In questo periodo matura in lui un’idea alta della funzione della Chiesa che afferma il primato dell’ecclesiale e dello spirituale.
Nel 1943 lascia Roma e fa ritorno in El Salvador dove presta servizio fino al 1967 nella diocesi di San Miguel. In questi anni, in continuità con il periodo romano, si preoccupa della difesa e della trasmissione dell’ortodossia cattolica nella sua integrità contrastando la diffusione del protestantesimo, lottando contro i massoni e denunciando il comunismo.
Nel 1967 viene nominato segretario della Conferenza episcopale salvadoregna e, poco dopo, anche di quella dell’America Centrale.
Nel 1970 viene nominato vescovo e sceglie il motto episcopale Sentire cum Ecclesia, un programma di vita che indica il suo amore e attaccamento per la Chiesa.
In questi anni si afferma in America Latina la Teologia della Liberazione che tenta di coniugare fede e giustizia guardando Dio dalla realtà dell’ingiustizia e della disuguaglianza. Romero guarda con sospetto tale movimento perché ne teme una deriva troppo politicizzata, ma l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi del 1975 gli permette di leggere con più chiarezza tutte queste novità teologiche: il Papa, infatti, afferma che la liberazione evangelica è liberazione da tutte le schiavitù, da quelle personali a quelle sociali e strutturali che feriscono e degradano l’uomo. Non c’è dunque bisogno del marxismo, basta prendere in mano seriamente il Vangelo per combattere l’ingiustizia e parlare di liberazione.
Nel 1976 Romero viene nominato arcivescovo di San Salvador, scelta considerata moderata dalle autorità ecclesiastiche e anche dall’oligarchia.
Il 12 marzo 1977 accade un fatto drammatico che segna l’esistenza di Romero: il padre gesuita Rutilio Grande, fraterno amico, viene assassinato insieme a due campesinos. Il vescovo si interroga profondamente; di fronte al cadavere dell’amico inizia a comprendere che il corpo vivente di Cristo, i poveri, sono oppressi e uccisi da un potere politico ed economico che si presenta come baluardo della cristianità, ma che in realtà è inumano e anticristiano. Grazie al sacrificio di padre Rutilio, Dio aveva concesso a Romero una particolare “fortezza pastorale” capace di fargli affrontare con coraggio conflitti e persecuzioni.
Egli diventa così voce di un popolo oppresso e perseguitato; ritiene infatti che il compito del sacerdote è annunciare la Parola di Dio senza separarla dalla realtà storica:
“E’ molto facile essere servitori della Parola senza dar fastidio al mondo, una Parola molto spiritualista, senza impegno con la storia, che può risuonare in qualunque parte del mondo, perché non è di alcuna parte del mondo: una Parola così non crea problemi, non genera conflitti. Ciò che genera i conflitti, le persecuzioni, ciò che segna la Chiesa autentica, è quando la Parola bruciante, come quella dei profeti, annuncia al popolo le meraviglie di Dio, perché vi creda e le adori, e denuncia i peccati degli uomini che si oppongono al Regno di Dio, perché li estirpino dai loro cuori, dalle loro società, dalle loro leggi, dai loro organismi che opprimono, che imprigionano, che calpestano i diritti di Dio e dell’umanità.”
L’operato di Romero viene contestato dai vescovi del Paese ma egli sa che non può fare diversamente… La sua fedeltà deve essere al Vangelo e a Cristo:
“La dimensione politica della fede non è altro che la risposta della Chiesa alle esigenze del mondo reale e socio-politico in cui la Chiesa vive. Non che la Chiesa consideri se stessa come un’istituzione politica. E’ qualcosa di più profondo ed evangelico: è l’autentica opzione per i poveri, l’opzione di incarnarsi nel loro mondo, di annunciare loro una buona notizia, di dare loro una speranza, di incoraggiarli a una prassi liberatrice, di difendere la loro causa e di partecipare al loro destino. E’ perché ha optato per i poveri reali e non fittizi, perché ha optato per coloro che sono veramente oppressi e repressi, che la Chiesa vive nel mondo del politico e si realizza come Chiesa anche attraverso il politico. Non può essere diversamente se anch’essa, come Gesù, si rivolge ai poveri.”
Da Roma è Paolo VI a incoraggiare e sostenere l’arcivescovo di San Salvador, come pure il superiore generale dei gesuiti, padre Pedro Arrupe, e il cardinale argentino Eduardo Pironio, prefetto dell’allora Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari.
La via che Romero propone a tutti è quella evangelica della nonviolenza e della civiltà dell’amore:
“Mai abbiamo predicato la violenza, solo la violenza dell’amore, quella che lasciò Cristo inchiodato in una croce, quella che fa ciascuno per vincere i propri egoismi e perché non ci siano disuguaglianze così crudeli fra di noi. Questa violenza non è quella della spada, dell’odio. E’ la violenza dell’amore, della fraternità, quella che vuole trasformare le armi in falci per il lavoro.”
Lunedì 24 marzo 1980, mentre sta celebrando la messa nella chiesa dell’ospedale della Divina Provvidenza, viene assassinato.
La sua morte è riconosciuta come una forma di martirio, perché ucciso in odio alla fede e non solo per motivi politici. Nel suo ministero pastorale, infatti, è riuscito a coniugare fede e giustizia intervenendo nelle questioni politiche e sociali del suo Paese senza confondere i piani e senza sconfinare così nell’attivismo politico, senza tuttavia separarli, estraniandosi dal contesto storico. Così è stato beatificato Romero, un santo che ha incarnato lo stile pastorale della “Chiesa in uscita”, che ha scelto di vivere il Vangelo anche quando la beatitudine aveva il sapore della sofferenza, della calunnia, della estromissione, finanche del martirio.
Franco Contino