Viaggio nella diocesi sotto la più pesante cappa di terrore di tutta l’Africa
C’è una linea immaginaria in Nigeria, che dal nord scende di trasverso fino al confine orientale, tagliando fuori lo spigolo di Paese che si incunea tra il Camerun, ad est, Ciad e Niger a nord.
Difficile attraversare quella linea con disinvoltura: i contractors occidentali sono spariti da tempo, troppo rischioso, non ci vanno facilmente i media stranieri, non ci si avventurano ormai quasi più neanche i nigeriani del sud, che un tempo vi si affollavano per stabilire fiorenti commerci.
Al di là si estende un lembo di terra dai panorami sconfinati di savana aperta che si rarefà via via in deserto man mano che si sale a nord, poche città grandi, simili più a paesoni di casette basse dal tetto di lamiera ondulata, strade polverose battute da un sole implacabile: il resto è campagna, punteggiata di villaggi di fango, ombreggiati da rade acacie, catene montuose, impervie colline di pietra compatta grigio scura, mandrie di buoi gibbosi dalle lunghe corna diritte accompagnate dai nomadi Fulani, i folletti delle pianure, che vivono in simbiosi con gli animali nel loro eterno peregrinare.
L'ODIO FANATICO DI BOKO HARAM - Questo posto è oggi una delle zone ad alto rischio dell’Africa, per certi versi la peggiore. Qui non è guerra, non ci sono linee, bande o fazioni identificabili, non puoi dire «ecco, qui sono al riparo, al sicuro»; qui è terrorismo della peggiore specie, strisciante, continuo, violenza primitiva, che usa il coltello più delle armi sofisticate, si muove al buio, quando la paura allunga le grinfie, nei vicoli dei quartieri di città come nei villaggi isolati delle campagne.
Siamo nel cuore delle zone infestate dall’odio fanatico di Boko Haram, la setta integralista che ha steso su tutto un velo pesante, palpabile, di terrore soffocante, difficile da raccontare.
Boko Haram. Suona quasi bene, pronunciato con l’acca aperta e aspirata della lingua Hausa, sa di deserto, di vento tra i cespugli spinosi, evoca carovane in marcia, lunghe teorie di viaggiatori, le corse dei cavalli tra le dune, qualcosa di misterioso ed evanescente. E invece è la morte.
LA VIOLENZA FEROCE - Questa terra, evangelizzata dai missionari irlandesi cent’anni fa, per secoli punto di scambio tra il Sahara e il Golfo di Guinea, dove la pacifica convivenza tra religioni diverse era un fatto normale, è il tragico palcoscenico di una violenza feroce che mira a dividere e imporre un odio che non c’era. I musulmani devono abbracciare il credo del fanatismo, altrimenti diventano bersaglio della setta che non accetta moderazione; e i cristiani se ne devono andare, o convertirsi anche se vivono qui da generazioni, in pace con la stragrande maggioranza dei musulmani, da buoni vicini oppure come famiglie allargate con parenti di fede diversa. Tutto questo è ciò che è nel mirino degli integralisti, tutto questo deve scomparire: chi non si piega viene ucciso o vive nel terrore di poter essere lui il prossimo a lasciarci la pelle.
IL VESCOVO CHE RESISTE - «La cosa più importante è che, nonostante tutto, i sacerdoti non se ne vanno, non abbandonano i fedeli, finché resta anche una sola anima di cui prendersi cura è nostro dovere rimanere». Oliver Dashe Doeme è il vescovo che regge forse la diocesi sotto la più pesante cappa di terrore di tutta l’Africa, ha sempre rifiutato la scorta, gira col suo assistente che fa anche da autista, bersaglio vivente ed esibito: «Come faccio ad andare nelle città, nei villaggi a dire alla gente di resistere, pregare, aver fiducia nel futuro se mi presento con dieci soldati ed un pick up blindato?»
«È un fatto di povertà e mancanza di cultura: che cosa vuole Boko Haram? Vuole dire che la cultura è peccato, perché la cultura rende liberi, e loro vogliono che i giovani crescano nell’ignoranza, così sono manovrabili. I terroristi però usano le armi fabbricate in Occidente: qualcuno insegna loro come maneggiare gli esplosivi, non è forse anche questo cultura moderna?»
PARROCI IN PRIMA FILA - John ha meno di quarant’anni, ha studiato a Roma, fa il parroco nel villaggio natale del fondatore di Boko Haram, Mohamed Yusuf, parla un ottimo italiano. «Bisogna raccontare il terrore che la gente deve affrontare qui, in Italia è difficile immaginare cosa significa vivere da queste parti, le persone non hanno gli strumenti mentali per poter comprendere». Insieme a lui ci sono William, Kevin, e Gideon, parroci giovani, costretti a convivere con questo terrore quotidiano come comporre i morti ogni volta che c’è un attentato, un omicidio, occuparsi delle vedove e degli orfani. Kevin l’ultimo omicidio lo ha visto poco più di due settimane fa: hanno sgozzato un ragazzino di quindici anni, poi hanno freddato la madre ancora inginocchiata sul corpo del figlio. Agiscono sempre di notte i terroristi. Mostra le foto. «Ci sentiamo scoraggiati. L’anno scorso qui hanno ammazzato trenta studenti dell’Università: andavano di casa in casa, alle tre del mattino, chiedevano “come ti chiami ?” e ammazzavano tutti quelli che avevano un nome inglese, non tradizionale. Gli hanno sparato e squarciato la gola. Quando è arrivato l’esercito era già tutto finito».
Quello che fa più male da queste parti è il rischio della rassegnazione, l’interesse dei media che si allenta, quasi che vivere così possa essere normale: «Vedi, noi da vivi non facciamo notizia - dice un testimone che vuole restare anonimo - chi mai vorrebbe leggere la mia storia? Ma da morti facciamo vendere i giornali, la gente vede i nostri corpi in tv e aspetta qualche secondo prima di cambiare canale. Ma ormai se moriamo solo in due o tre interessiamo sempre meno. Per fare audience dobbiamo morire in dieci, o venti. Di stranieri, di solito, ne basta uno solo. Ti prego, parlate di noi».
da Corriere della Sera - Inchieste